Il ritorno a Sibari di Anna Romanello.
Confrontarsi con un luogo storico è per un artista una sfida entusiasmante ma complicata; certo è bello raccogliere la sfida di un messaggio antico in un dialogo a distanza, per mettersi a comunicare con un passato che non può ascoltare, perché il tempo va solo in avanti e solo alla memoria degli uomini è dato ricongiungersi con le epoche lontane. Ogni artista in verità desidera manipolare il tempo, nel senso di fissarlo illusoriamente nella sua opera, cogliere l'attimo fuggente della creazione e bloccarlo in un oggetto da percepire durevolmente. Ma come mettersi di fronte al passato, autorevole ma giuntoci consunto e frammentario?
Prendiamo il caso di Sibari, città florida e raffinata della Magna Grecia fondata dagli achei nel VIII secolo a. C. e distrutta dai crotoniati nel 510 a.C. Già nel Settecento ci fu chi, prima ancora che venissero alla luce i resti dell'antico sito, sulla scia dei racconti di Strabone e storici seguenti, si spingeva fino in Calabria per raccogliere vedute e farne pregevoli stampe. Come l'abate Richard di Saint-Non, che con una squadra di disegnatori e incisori realizzò per il suo Voyage pittoresque ou description du Royaume de Naples et de Sicile (Parigi, 1783) un paio di acqueforti su Sibari, disegnate da Claude-Louis Châtelet, che interpretavano il paesaggio dell'Alto Ionio secondo modalità “francesizzanti”, ovvero con gli occhi di una borghesia colta, che idealizzava il pittoresco meridionale adattandolo alle raffinatezze parigine. Ma quelli erano i tempi del Gran Tour e dei giovani intellettuali europei, che viaggiavano nell'Italia del Sud per visitare e “rivivere” i luoghi della Magna Grecia e della civiltà romana. Con il Novecento e con l'avvio delle campagne di scavi da parte di Zanotti Bianco e della Zancani Montuoro, sono venuti alla luce i resti di Sibari, di Thuri e Copia, tre città sovrapposte, segnando soprattutto a partire dagli anni Settanta una nuova fase di visibilità del sito, tuttavia oscillante fra celebrazione e abbandono, fra gloria e oblio.
In tempi recenti è stato Jannis Kounellis, uno dei massimi artisti viventi, a cimentarsi con la magia di Sibari, in un intervento fra la Storia e il Presente, realizzato nel 2007 nell'ambito del progetto “I luoghi del mito. Magna Grecia e Arte Contemporanea”, da me coordinato all'interno di “Sensi Contemporanei in Calabria”. Ricordo ancora il suo arrivo nella zona degli scavi: ad un certo punto si mise ad annusare l'aria e a noi, che lo guardavamo incuriositi, disse: “Sento il profumo dell'aria di casa mia, Il Pireo”. Nacque così l'installazione “Un tocco leggero come le ali di un passerotto per il Museo degli Scavi di Sibari”, con sospesi sassi e corvi neri impagliati e, fra le teche coi reperti, cinquecento ciotole di terracotta ripiene di essenze profumate, che inebriavano fino allo stordimento i visitatori. In quell'ideale ritorno a casa Kounellis ritrovava un punto di contatto fra la sua terra e la nostra, fra la Grecia e la Magna Grecia, un rapporto, che dall'antichità si trasferiva ai giorni nostri.
Oggi tocca ad un'artista calabrese, Anna Romanello, recuperare il senso di una relazione ancestrale con quel territorio, dove lei è nata e da dove è partita tanti anni fa per stabilirsi fra Roma e Parigi, senza tuttavia recidere quel cordone ombelicale con la sua terra d'origine.
Anna è un'artista che viaggia molto e in occasione di un'altra sua mostra in cui presentava soprattutto sue opere resoconti di viaggi (Tentative d'évasion, Loft Gallery, Corigliano Calabro, 2007) scrivevo che “in ogni viaggio c'è sempre la ricerca di un luogo interiore, originario, ideale, perduto e mai raggiungibile.”
Questa volta in qualche modo si tratta di un vero ritorno a casa ma per niente catartico o risolutore di quella mélancolie esistenziale, che rende dolce il rientro. La Sibari che Anna ritrova è una Sibari ferita.
La ricerca di corrispondenze è sempre un po' personale ma assai più coinvolgente, complessiva, di un'atropologia sociale che pensa al passato storico, per assumere anche il tono di una denuncia accorata. E' così che i cretti formatisi nel fango dopo l'allagamento degli scavi di Sibari nel gennaio del 2013 sono diventati il simbolo di uno sgretolamento culturale e civile, il segno di ferite diffuse in un patrimonio archeologico di rara bellezza.
I cretti fotografati e sovrastampati con xilografie da Romanello non hanno la serena spettacolarità dei cretti di Alberto Burri, che pure citano. Sono, piuttosto, “incisioni” naturali drammatiche, che non potevano passare inosservate alla sensibilità di un'artista, che dell'incisione ha fatto la sua tecnica espressiva preferita; ma un conto è incidere la lastra di zinco e di legno per dare vita ad una matrice calcografica e ad un'opera d'arte, altra cosa è la tragicità della natura che, lasciata senza controllo umano, cancella la stessa storia dell'uomo.
Gli scavi di Sibari sono il segno di una coscienza infelice, che invece di riportare alla luce i resti sepolti del passato fa riemergere i fantasmi della distruzione. Le crepe nel terreno sono crepe dell'anima, che si ribella e opera col ritocco fotografico una segnalazione visiva. L'artista nell'inserire le propre opere dentro il Museo della Sibaritide tenta una sublimazione del presente con il linguaggio problematico dell'arte contemporanea, che all'incrocio col passato, aggiunge una premurosa rianimazione. Le immagini restituiscono una realtà cruda, che riemerge dalle profondità del tempo e preconizza, con l'ottimismo dell'arte, una nuova rinascita.
Dal catalogo della mostra “I luoghi della memoria”