Paolo Puppa

Anna o della bellezza altrove

Hegel profetizzava che nel moderno l’arte sarebbe morta sostituita dal pensiero critico. Nel successivo secolo breve, in effetti, l’arte funziona per lo più in quanto procedimento metalinguistico, gesto che scompone gli oggetti (si pensi all’umorismo pirandelliano) e gioca sulla ricezione. Nel terzo millennio, tale atteggiamento si sviluppa nel post moderno come trasferimento di codici, di generi, di funzioni. Così lo spin off, una delle maniere più praticate ad esempio tra narrazione e drammaturgia contemporanee, vedi le serie televisive d’oggi, che recupera ruoli secondari e li piazza in primo piano. Anna Romanello da molti anni opera  spiazzamenti, decontestualizza apparati, sgretola profili, terremota e riscrive superfici. Sotto le sue mani febbrili il caos si fa forma e viceversa, attraverso soluzioni sofisticate e lontane nel tempo, come quelle calcografiche di stampa su rame e zinco. Ne fuoriesce un catalogo di soggetti multipli, lignei collages, preziose xilografie, puntasecche e acque forti,  sfere in plexiglass ravvivate da inserti musivi, pastelli litografici con punte elettriche in grado di far colare sulla superficie cromatismi simultanei tardo futuristi. E intorno leporelli si dispiegano con tocchi astuti da brava scenografa. Questa lista di mestieri specialistici non esclude il naturale di una matericità di volta in volta riplasmata con interventi da tecnologie aggiornate. Così, ad esempio,  carte graffiate e lastre   a ricostituire la tradizione lontana nel tempo  della sinopia. Ora, Anna alchimista non tiene per sé i segreti del suo fare, ma ama distribuirli,  insegnarli. La sua infatti è anche una carriera di docente nelle Accademie di Belle Arti. E le sue radici calabresi  se le porta in giro per il mondo, negli atéliers autorevoli dove si è formata, a partire da quello parigino di Stanley William Hayter, il grande maestro inglese di incisione di estrazione surrealista.  E la dizione, Istituto  dell’Accademia di Belle Arti, Belle Arti appunto, appare semanticamente fondata dal momento che le arti si fanno belle attraverso le sue vertiginose mescolanze.

L’impressione  (in quanto esecuzione di stampa) in lei dal Rinascimento si porta con cortocircuiti fulminanti in nicchie architettoniche che ne modificano l’aspetto, in cornici che ne esaltano le icone. I caratteri mobili di Gutenberg dalla Bibbia si spostano nel teatro delle installazioni. A sua volta Aldo Manuzio sembra rivendicare giustamente un padiglione della Biennale. Ne deriva una pancronia di stili, dove l’antico e il contemporaneo si scambiano messaggi cifrati. L’intero space specific  si fa libro   d’artista. La parola, affidata a citazioni illustri di poeti e romanzieri, si finge pagina memore di volume per poi   sbriciolarsi in segno astratto. Dall’alto nel frattempo calano tremule velature, sipari penduli che spargono speziature arabe mentre sorgono dal basso frenesie incisorie, di cui Anna è da una vita  esperta. E ancora i tessuti si incrociano con opere fotografiche, sfregiate e allo stesso tempo di più forte appeal decorativo, specie se spuntano all’improvviso da scatole di legno. E intanto le immagini richiedono in modo imperioso  spazio, lo tastano, lo cercano, lo occupano con geniali contiguità, un  palcoscenico dinamico piena di sorprese come solo una donna sa inventare. Armonie conflittuali, una musica silente per usare una sinestesia. A confondere i sensi e le loro funzioni abituali.

Ho conosciuto anni fa Anna Romanello a Bruxelles, nella casa, o meglio nel palazzo lussuoso  del nipote di Marinetti. Eravamo compagni di un evento artistico multiplo, lei colle sue effigi abbacinanti, io coi miei monologhi performativi. E il bon ton aristocratico e bizzarro della magione veniva a doppiarsi nella semplicità, nel candore consapevole della Signora, aperta e curiosa del mondo, della sua inesauribile molteplicità. Poi ho frequentato la sua ospitale terrazza romana, dove ho avuto modo di apprezzarne le doti di chef. I cibi calabresi appaiati a prodotti parigini, mediati nelle ricette romane. Perché Anna fa col cibo quello che fa colle forme, in fondo.

Inevitabilmente, la stanza misteriosa e amica di Micromega, nero antro suggestivo  e insieme generosa galleria veneziana, diretta  con civiltà e competenza da Roberto Carlon mago delle lenti e da Franco  Avicolli, sociologo e antropologo esperto di saperi e sapori incrociati, accoglie   questa gioiosa offerta di colori. Aria, acqua, fuoco e terra, ovvero le sostanze arcaiche declinate da Gaston Bachelard all’insegna delle fantasticherie oniriche (e sbocciati per lo più negli anni atroci della Seconda guerra mondiale) trovano in questa mostra, dove danza la luce, una singolare e devota applicazione.    

professore di storia del teatro a Ca' Foscari-Venezia e drammaturgo performer

2023

Testi critici