Diego Mormorio

Una corda tesa.

Da tempo – ormai tanti anni –  viviamo in un bosco incantato. Navighiamo tra un riflesso e l’altro, in un mare di specchi, dove la nostra vita e quella delle cose sembrano galleggiare leggere, e svanire tra un niente e l’altro – nel continuo mutare della luce.

Ricordandoci di Faust, qualche volta vorremmo gridare: fermati riflesso, sei bello! Ma spesso – quasi sempre – esso muta già solo a un nostro piccolo movimento. Non ci lascia quasi il tempo di dire, o più velocemente di pensare. 

Noi siamo figli di una civiltà degli specchi; e con essi possiamo compiere giochi innumerevoli. Siamo figli di Perseo e di Atena, che ha dato all’eroe lo scudo riflettente col quale egli ha potuto decapitare la Medusa senza guardarla direttamente negli occhi. 

Sopra gli specchi, e soprattutto usando quello della fotografia, noi costruiamo le nostre figure, e da esse raccogliamo inganni e lusinghe. Con incanto e immaginazione, attraverso di esse abbiamo abbandonato le antiche paure. 

Prima della civiltà degli specchi l’umanità ha vissuto nella paura dell’ombra e dei riflessi – nell’idea che questi nascondessero delle insidie. Ancora oggi, in molte culture è considerato di cattivo auspicio rompere uno specchio o vedersi rispecchiati di notte, così come è considerato importante velare gli specchi nella casa di un morto e sottrarsi alla posa fotografica. Gesto quest’ultimo che nel 1847 sembrava consigliare Balzac, il quale riteneva che, ad ogni operazione fotografica, il corpo fotografato perdesse uno dei suoi spettri “inafferrabili ma percettibili”. Idea questa che aveva corrispondenza con la teoria democritea degli idola, che da Epicuro è passata alla più nota esposizione di Lucrezio, nel quarto libro del De rerum natura: “Dico che figure e immagini sottili sono emesse dagli oggetti e ne sgorgano dalla superficie; a queste immagini diamo il nome di membrane o cortecce; ognuna ha la forma e l’aspetto dell’oggetto – qualunque sia – da cui emana per errare nello spazio”.

Vivesse oggi, Balzac – che pure si fece almeno una volta fotografare – non avrebbe forse più quei suoi timori. Anche lui si troverebbe a suo agio nel mondo delle figure riflesse, che diventerebbero certamente parte della sua commedia umana. Platone, invece, avvertendo la qualità demoniaca dello specchio, resterebbe profondamente inquietato. Tutta questa fantasmagoria di immagini gli apparirebbe come il trionfo della irrealtà, di un mondo senza fondamento. Gli tornerebbero sulle labbra le parole del Fedro: “gli esseri che la pittura produce si ergono come se fossero vivi; ma se rivolgi loro qualche domanda, oppongono un solenne e totale silenzio”.

Noi invece abbiamo preso abitudine a parlare con le figure riflesse nella pittura o sui vetri, e a farci silenziosamente rispondere. Il mondo di queste figure è diventato il nostro luogo. Tutta la nostra cultura di odierni uomini occidentali poggia infatti su una colossale fabbrica di superfici trasparenti e specchianti. Tutte le nostre immagini ci vivono dentro. A tal punto che, crediamo, ne resterebbe affascinato anche Leonardo, autore di un memorabile consiglio pittorico: “Lo ingiegno del pittore vol essere a similitudine dello specchio… Lo specchio si de’ pigliare per suo maestro, cioè lo specchio piano, impero ch’in sulla sua superficie le cose ànno similitudine colla pittura in molte parti… La pittura è una sola superficie e lo specchio quel medesimo”.

Penso questo riguardando le immagini che Anna Romanello ha ripreso a Londra e che ha raccolto sotto il titolo di London Reflections. La prima volta che le vidi avvertii un chiaro piacere di guardarle, ma anche che c’era qualcosa che mi faceva pensare a Jan van Eyck, sebbene lì per lì non riuscissi a identificare cosa fosse. Poi, guardando e riguardando, ho capito: in una delle due immagini di Knights Bridge c’è una forma – una sorta di ruota dentata – che mi portava inconsciamente a pensare al Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434), nel quale, alle spalle dei rappresentati c’è uno specchio con una cornice anch’essa a forma di ruota dentata che riflette di spalle la coppia e che lascia vedere frontalmente lo stesso pittore e un altro personaggio. Ecco, è inevitabile: viviamo in un continuo rimando di figure. Platone direbbe che vaghiamo nell’inesistente, mentre tutto ciò è per noi parte considerevole dell’esistenza.

Nelle immagini di Anna Romanello ritrovo delle cose di Londra che mi sono familiari, ma soprattutto vedo una contaminazione a me carissima: quella tra la fotografia e l’incisione. L’autrice, infatti, realizza le sue figure, oltre che usando le superfici riflettenti, con diversi segni xilografici e con l’ausilio di altre tecniche. A rigore, dunque, non possiamo definire queste opere fotografie, ma immagini che si fondano su delle fotografie e fotografie che si fondono con la pittura. 

In esse trovo semplicità e rigore. Guardandole, mi sembra di camminare su una corda tesa tra la verità fotografica e l’immaginazione. 

Dal catalogo della mostra “London Reflection”

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